Verso un luogo narrativo

Verso un luogo narrativo

Guido Pisi

Un’endiadi narrativa, il doppio racconto dei salvati e dei salvatori, evoca ciò che accadde a Nonantola tra il luglio 1942 e l’ottobre 1943. Storia di un incontro e di “sangue risparmiato”. Per gli abitanti del luogo l’atto di aiuto ai 73 giovanissimi profughi ebrei rifugiati a Villa Emma si diluì nel grande trauma della guerra, mentre per i salvati quel bene ricevuto divenne parte di un ricordo incancellabile. Nel tempo trascorso, Villa Emma si è lentamente costituita come “luogo di memoria”, fondato sui racconti dei testimoni della storia che vi accadde, abitato dalle loro voci interiori, dai loro fantasmi. E l’anima del luogo è sospesa nel gesto narrativo che i testimoni sono disposti a rinnovare per chi desideri ascoltarli.

Il luogo della memoria

«I luoghi della memoria – scrive Pierre Nora – sono, innanzi tutto, dei resti» [1].
Il filosofo Paul Ricoeur gli contrappone una diversa definizione: «I luoghi di memoria, io direi, sono delle inscrizioni», intendendo con questa parola le «marche esterne, adottate come appoggio e collegamento per il lavoro della memoria» [2].
Oggi, interrogandoci sui caratteri di un possibile memoriale della storia dei salvati a Nonantola e sui modelli ai quali fare riferimento per progettarlo, credo occorra ripartire ancora una volta dalla nozione di luogo di memoria, riprendere cioè il discorso sul significato che noi intendiamo attribuire a queste parole.
Secondo una delle accezioni ormai comunemente accolte, l’espressione luogo di memoria serve a designare uno spazio fisico e immaginario profondamente segnato dal passaggio della storia e tale da suscitare un forte effetto emozionale in chi lo attraversi consapevolmente [3].
Mentre con il sostantivo memoriale siamo soliti connotare un dispositivo, materiale e simbolico, pensato ed allestito per agevolare l’incontro tra il visitatore e l’eredità di un passato che il luogo conserva: quindi potremmo dire che il memoriale è il prodotto di un lavoro intenzionale per “far parlare” il luogo.
Ma il luogo di memoria non è unicamente né principalmente un luogo topografico quanto piuttosto un insieme di segni esteriori che rinviano al passato e sui quali le forme della vita sociale possono appoggiarsi nelle pratiche quotidiane del presente.
Io immagino il luogo di memoria come uno spazio mentale fondato innanzi tutto sui racconti dei testimoni della storia che accadde, uno spazio abitato dalle loro voci interiori e dai loro fantasmi, uno spazio in cui le loro rappresentazioni psichiche frammentate cercano una via per ritrovarsi e ricomporsi [4].
Così inteso, il luogo di memoria si costituisce principalmente in quanto luogo narrativo, luogo di un’anima poetica, nel senso originario che i greci attribuivano alla parola poiesis: un fare fine a se stesso, nella completa gratuità dell’atto, qui senz’altro scopo se non quello dell’amore per il racconto del passato, per la sua messa in immagini.
È l’idea, che ci suggerisce il semiologo Jurij Lotman, secondo la quale il mondo intorno all’uomo parla molte lingue e la capacità di chi ascolta consiste nell’imparare a capirle decifrando i loro codici [5].

Italo Calvino nel 1964, introducendo un’edizione del suo romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno, descrive con queste parole l’atmosfera che si respirava in Italia nei giorni e nei mesi che seguirono la liberazione:

[…] si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare […]; ci muovevamo in un multicolore universo di storie [6].

Ecco, un multicolore universo di storie è un’immagine che rappresenta, a mio avviso, in modo folgorante il nostro luogo di memoria, un luogo dove le voci del passato continuano a risuonare, a somiglianza delle note che vibrano nella cavità dello strumento anche quando la musica è già finita. C’è una splendida espressione con cui James Hillman spiega la condizione affinché questo flusso narrante possa scorrere liberamente in cerca di ascolto: bisogna, egli ci dice, «lasciare che le voci dell’anima, come i personaggi di una favola, continuino il loro racconto anche quando il libro è già chiuso» [7].

Due flussi narrativi

Se ci riferiamo alle testimonianze sul caso di Villa Emma o, meglio, su ciò che accadde a Nonantola tra il mese di luglio del 1942 e l’ottobre 1943, la prima cosa che balza agli occhi in quel “multicolore universo di storie” è la presenza di due distinti flussi narrativi che fanno capo rispettivamente a due gruppi sociali molto diversi tra loro: il primo è composto dai bambini, dagli adolescenti e dai giovanissimi ebrei fuggiaschi che con i loro accompagnatori trovarono temporaneo rifugio nella villa affittata a questo scopo dalla Delasem (Delegazione assistenza emigranti ebrei), l’altro gruppo comprende un certo numero di abitanti di Nonantola, ragazzi e adulti, che in quel periodo entrarono a vario titolo in relazione con i primi.
Ciascun gruppo, nei settant’anni trascorsi, ha prodotto una propria rappresentazione sociale dell’accaduto, fortemente condizionata dalle vicende successive.
Nell’incontro con l’altro, e poi in sua assenza, ogni gruppo – direbbe Maurice Halbwachs – ha elaborato una propria memoria collettiva [8] di quel passato e noi oggi non riusciremmo a coglierne la complessità di significato se non tenessimo conto di questa struttura a due voci nel racconto della storia di Villa Emma. Una sorta di endiadi narrativa dove s’incrociano due esperienze distinte eppure inseparabili perché inscritte all’interno di una medesima trama. Si tratta di racconti che si presentano allo stesso tempo come speculari (guardo l’altro che vede me) e complementari (ciascun gruppo ricorda secondo proprie rilevanze che però dobbiamo tenere tutte presenti per riuscire a coglierne il senso di reciprocità). Le due narrazioni sono comunque irriducibili dal momento che si collocano da prospettive radicalmente diverse.
Nel concepire un modello di memoriale dovremmo partire proprio da questa antinomia del doppio racconto – speculare-complementare/irriducibile – che poi si incrocia con la coppia salvatori-salvati e con i problemi che quest’ultima ci pone. Esaminiamo i due flussi narrativi.

Il racconto dei profughi ebrei

Dal punto di vista di bambini e adolescenti improvvisamente strappati all’affetto delle loro famiglie, perseguitati e gettati nell’avventura di una fuga dall’esito incerto, la costruzione del ricordo non può che gravitare intorno al dato della paura, della sofferenza, della perdita; ma è proprio all’interno di esse e per contrasto che la parentesi di Villa Emma assume un risalto tale da renderla incancellabile:
“Ci hanno portato in un posto meraviglioso, appena fuori città, dove c’era una magnifica villa, Villa Emma […]. La gente intorno era molto cordiale, nei negozi, per strada. Avevamo la sensazione che ci volessero bene” [10].
I componenti di questo gruppo, tutti giovani o giovanissimi, negli anni seguenti elaboreranno le loro memorie individuali su quel passato guardandolo retrospettivamente dalla condizione di salvati, di cittadini del nuovo Stato di Israele, di persone impegnate a costruire il proprio futuro lavorativo e famigliare. Ciò tuttavia non gli impedirà di conservare il ricordo del passaggio da Villa Emma come un’esperienza importante per la loro identità. L’educatore-guida del gruppo, Josef Indig intitola già nel 1945 la versione in tedesco delle sue memorie “Yaldei Villa Emma” (I ‘figli’ di Villa Emma) [11].
Malgrado lo scioglimento del gruppo e le difficoltà della vita nei primi anni dopo la fondazione di Israele, i suoi componenti terranno vivi in qualche modo i contatti e continueranno ad alimentare i ricordi comuni. Il frutto di questa “comunità affettiva di memoria” – come la definisce sempre Halbwachs – è la richiesta di un riconoscimento pubblico dell’azione di salvataggio condotta da Don Arrigo Beccari e dal dottor Giuseppe Moreali che il gruppo dei salvati rivolge al più alto livello istituzionale preposto (lo Yad Vashem che nei primi anni ’60 aveva avviato un progetto mondiale per assegnare il titolo di “Giusti fra le Nazioni” ai non ebrei che, agendo disinteressatamente, rischiarono le loro vite per salvare gli ebrei durante la Shoah).
Il riconoscimento sarà attribuito al sacerdote e al medico nonantolani già nel 1964. La memoria collettiva dei “Ragazzi di Villa Emma” trova dunque precoce accoglienza nella memoria collettiva dello Stato di Israele e simbolicamente i due alberi piantati nel Viale dei Giusti diventano una di quelle “marche esterne”, “inscrizioni” per segnare un territorio della memoria che comincia a Nonantola e confina con Gerusalemme.

Il racconto dei testimoni nonantolani [13]

Per gli abitanti di Nonantola, il passaggio dei ragazzi ebrei e l’aiuto offerto alla loro fuga si riducono ad un episodio marginale nella memoria traumatica della guerra. Dopo la partenza degli ultimi fuggitivi verso la Svizzera, Nonantola conoscerà il periodo più difficile e doloroso del conflitto, con i bombardamenti alleati, le rappresaglie tedesche, la guerra civile [14]. Sono questi eventi a polarizzare la memoria dei testimoni.
Molti di loro ricordano di avere, in seguito, occasionalmente accennato alla storia di Villa Emma con qualcuno dei coetanei, senza andare oltre uno scambio fuggevole di ricordi. Questo accadeva fino al 1964.
«Fino al 1964 io non ci pensavo […]. Un giorno vedo entrare Don Arrigo con il dottor Moreali e un omino piccolo che era alto come me. Dico “Ma guarda un po’, quello lì mi sembra di conoscerlo”. Sai chi era? Era Josef Indig, Josko, che venne qui nel 1964 per portare la più grande onorificenza a questi due […]. Da lì si è cominciato a riparlare di questa storia» [15].
Se i testimoni nonantolani continuarono a coltivare le proprie memorie individuali entro il perimetro del privato – la famiglia, la cerchia dei coetanei, gli amici -, la memoria collettiva del loro gruppo, quel «discorso che si evolve nello spazio pubblico» [16], e non la semplice sommatoria di memorie personali, crebbe invece stentatamente assumendo via via le caratteristiche proprie di una memoria debole.
La causa di questa fragilità, io penso, andrebbe ricercata prima che altrove nel mutamento antropologico portato dalla “grande trasformazione” che rimodellò in profondità le periferie emiliane fino “[al]la scomparsa delle lucciole”, come scrisse Pier Paolo Pasolini [17] in un celebre articolo sul tramonto dei valori della nostra civiltà contadina, e che avevano ispirato anche l’azione di salvataggio dei perseguitati di Villa Emma.

Competizione tra memorie

A proposito della marginalità della memoria dei fatti di Villa Emma nella costruzione di una memoria pubblica è bene ricordare che la conservazione del passato è sempre un fenomeno dinamico che non esclude il conflitto: il passato, anche nel nostro caso, è una sorta di “posta in gioco” fra interessi e gruppi contrapposti, come ci ricordano Walter Benjamin e lo stesso Halbwachs [18].
È molto significativo che nel libro di Ilva Vaccari, in cui vengono ricostruiti per la prima volta, i fatti di Villa Emma siano ridotti al paradigma resistenziale [19], anticipando di oltre trent’anni una categoria storiografica come quella di “resistenza civile” ancora di là da venire [20]. Non si tratta di accusare i partigiani di avere colonizzato, impoverendolo, l’intero spazio commemorativo quanto piuttosto di prendere atto che anche tra chi ha sofferto sotto la stessa oppressione si è svolta una competizione per affermare la rilevanza del proprio ricordo a scapito di quello altrui.

Dopo il 1964 le amministrazioni locali di Nonantola in realtà assicurarono una certa continuità rituale delle celebrazioni, perché il passato di Villa Emma non fosse del tutto dimenticato. Ma la commemorazione – pur necessaria – non è il modo migliore per far rivivere il passato nel presente. Mi limito a segnalare che l’azione pubblica più innovativa e partecipata, a mio parere, venne dall’ambiente scolastico attraverso l’esperienza del film I giorni di Villa Emma, che fu realizzato dagli insegnanti, dai ragazzi e dai genitori di due classi delle scuole elementare e media nell’anno scolastico 1977-78, coordinati da don Giovanni Gilli. Perché i fatti di Villa Emma potessero superare la prova di verità che compete alla storiografia si sarebbe dovuta attendere per quasi sessant’anni una ricostruzione della vicenda da parte dello storico tedesco Klaus Voigt, che nel 2002 pubblicò una documentatissima ricerca [21], mentre una piena assunzione del dato memoriale da parte delle istituzioni è avvenuta nel 2004 con la nascita della Fondazione Villa Emma.
Un’osservazione a margine: negli anni Ottanta sarebbe forse stato ancora possibile avanzare un’opzione per acquisire al patrimonio pubblico il complesso della villa, che fu invece acquistata da privati.

Benefattori e beneficiati

La storia di Villa Emma mette in gioco due ruoli ben distinti: i benefattori, quegli abitanti di Nonantola che si adoperarono prima per l’accoglienza, poi per il nascondimento e la fuga dei ragazzi perseguitati, e i beneficiati, il gruppo degli ebrei in fuga vittime della persecuzione.
Per la memoria del gruppo dei beneficiati, che erano allo stesso tempo anche titolari dello statuto di vittime, vale quello che scrive Georges Bensoussan: «Un altro difetto della memoria consiste nel peggiorare inutilmente le cose. Ora, il salvataggio dei perseguitati fu una realtà. È necessario chiarirla, ricordando i casi di simbiosi tra la società ebraica e quella circostante (cfr. Italia e Danimarca)» [22].
La “simbiosi” tra la micro-società di Villa Emma e la comunità dei nonantolani si sviluppa in vari ambiti (ad esempio lavoro, cibo, commerci), ma ve n’è uno in particolare che intreccia le memorie dei due gruppi in un racconto polifonico: lo chiamerei “la vita breve”, quella condizione che appartiene solo agli adolescenti che hanno già alle spalle un’esperienza della vita, quantunque di breve durata, e davanti a loro avvertono un’indefinita disponibilità di futuro. È lo spazio mentale dove i ragazzi s’incontrano nei giochi, negli scherzi, nei turbamenti dell’animo, nella scoperta del corpo, nelle amicizie forti, nelle idealità, negli amori. Quello è il luogo in cui la scoperta dell’altro m’illumina su me stesso. Lì i ragazzi si riconoscono simili e le memorie dei due gruppi si specchiano con sorprendente somiglianza.

Nelle testimonianze dei benefattori – il ruolo più nettamente marcato sul piano del valore morale – manca anche solo un minimo accenno di narrazione eroica, di legittima rivendicazione del merito per l’azione compiuta. D’altra parte essi erano pur sempre i giovani italiani di quell’Italia fascista che aveva appena emanato le leggi antiebraiche.
Interrogati sul motivo per cui decisero di aiutare i ragazzi ebrei di Villa Emma, rispondono con disarmante naturalezza: «E che cosa dovevamo fare? Avevano bisogno».
Essi sfuggono così alla “tentazione del bene” [23] che spinge coloro i quali si sono dovuti confrontare con il male a prendersi per un’incarnazione del bene. Attraverso le loro semplici parole, ci spiegano quello che il filosofo Emmanuel Lévinas chiama «l’umanesimo dell’altro uomo» [24] , un modo diverso di dire che, per la sensibilità di noi moderni, l’atto morale è necessariamente disinteressato.

Sono questi gli indizi a mio avviso più utili, quelli che noi dobbiamo cogliere e che ci spingono ad affermare l’essenzialità e la necessità di scoprire, finché sarà possibile, nuovi racconti, racconti preziosi sia dei testimoni ebrei che dei nonantolani, racconti da custodire con ogni cura e da ascoltare nel loro alternarsi se vorremo costituire un memoriale che sia per davvero anche un luogo narrativo.

Una scelta pedagogica

«Pensare significa liberarsi di ciò che è già noto», scriveva un tempo Michel Foucault [25].
In fondo la storia di Villa Emma è una storia a lieto fine di cui si sa già quasi tutto: i nonantolani non si comportarono da persecutori, anzi una parte di loro aiutò attivamente i perseguitati che, tranne due, riuscirono poi a salvarsi.
I benefattori sono stati premiati e la peripezia ha svolto il suo corso verso il ristabilimento dell’armonia. O almeno così sembrerebbe.
Ora, se noi immaginassimo un possibile memoriale per la storia dei ragazzi ebrei salvati a Nonantola come un dispositivo che indichi al presente l’esempio del passato (la salvazione dei perseguitati), una volta esauriti la lezione di storia e l’appello alla tolleranza correremmo il rischio di sentirci a posto con la nostra coscienza, avendo in realtà compiuto una banalizzazione della memoria con la scusa che essa dovrebbe “servirci da lezione”. Il nostro impegno pedagogico dovrebbe invece orientarsi verso quegli «interrogativi che sembrano superati quando le cose hanno ripreso il loro corso naturale» [26]. La memoria di Villa Emma deve educare alla diffidenza nei confronti dell’autorità e del gruppo, alla critica dell’ordine costituito, così come alla fiducia nella possibilità di resistere al male e all’importanza di scegliere responsabilmente i modi con cui opporvisi.

Il mito e la storia

Tra gli archetipi delle “storie supreme”, i miti che costituiscono i modelli fondamentali dell’agire e del sentire umani, ve n’è uno che aderisce in modo impressionante al racconto dei salvati di Villa Emma. È il mito di Enea, un mito straordinariamente complesso e che già al tempo di Virgilio vantava una tradizione millenaria. Il testo del poema virgiliano, com’è noto, doveva servire le strategie politiche della famiglia imperiale, la gens Julia, legittimandone il ruolo di comando attraverso l’ascendenza di un fondatore prestigioso.
Ma non è questo aspetto che ci interessa. C’è invece un dato nel mito che riguarda da vicino il nostro caso e che appare con chiarezza fin dall’inizio: Enea e i suoi si salveranno perché questo vuole il loro destino. Alle spalle di quel pugno di superstiti che abbandona Ilio in fiamme c’è la catastrofe, dinanzi a loro un viaggio verso l’ignoto che li porterà a toccare porti, isole, sponde del Mediterraneo fino all’ultimo approdo alla foce del fiume Tevere. Qui è la terra dove gli esuli potranno iniziare una nuova vita e costruire un’altra patria. È il paradigma dei vinti, dei profughi, dei senza patria, la storia mille volte raccontata e riscritta, è il racconto delle loro peripezie e del loro dolore ma anche delle loro speranze.
Senza difficoltà possiamo ben collocare entro questo archetipo i racconti dei bambini e dei ragazzi ebrei che nell’estate del 1942 per primi arrivarono a Nonantola, tappa di un viaggio cominciato molto tempo prima nel cuore dell’Europa straziata dalla guerra, erranti verso una terra di salvezza.
Lo sgomento che essi provavano per la perdita dei genitori non è forse quella stessa angoscia che assalì nella notte della fuga l’eroe troiano e il figlioletto quando si resero conto di aver perduto per sempre Creusa, la moglie e la madre? L’accoglienza che i fuggitivi ricevettero ad Erice presso il re Aceste compendia l’atto sacrale dell’ospitalità di cui anche i fuggiaschi di Villa Emma poterono beneficiare. Ed il gesto di Ascanio, che giunto nella nuova terra cambia il proprio nome, è lo stesso atto simbolico che molti ragazzi di Villa Emma compirono nell’affrontare il nuovo inizio della loro vita in Israele.
Maurizio Bettini e Mario Lentano, raffinati interpreti della lingua e della civiltà latina, in un saggio molto bello sul mito di Enea, scrivono che il destino dell’eroe troiano «non era circoscritto al presente […] ma abitava per vocazione la dimensione del futuro» [27]. Per poter vivere questo futuro i troiani dovettero affrontare un’ultima guerra contro parte delle popolazioni autoctone del Lazio e sconfiggerle. Qui il mito si discosta bruscamente dalla nostra storia. Infatti, se nell’Eneide un matrimonio regale suggella la convivenza in pace tra i nativi e i nuovi arrivati, nella storia degli ebrei e del popolo palestinese va in scena il dramma di un conflitto senza fine che si consuma ancora oggi sul suolo di Palestina.
Qui il presente interroga il passato, non viceversa.
Il presente ci obbliga a ripensare la storia e a considerare il dolore di tutte le vite ferite e mutilate. Perché nemmeno l’avere acquisito in un certo momento lo statuto di vittima ci salva per sempre dalla tentazione di divenire a nostra volta attori di violenza. Né è lecito attendersi alcun beneficio morale dall’evocazione del passato se essa per noi consiste solo nel far bella figura senza impegnarci in un riesame critico della nostra identità collettiva.
Come vediamo, per questa strada la storia dei salvati di Villa Emma e le sue memorie ci portano lontano da qui, molto lontano, in un luogo dove anch’esse abitano per vocazione la dimensione del futuro.


[1] Pierre Nora (a cura di), Les lieux de Mémoire, I, “La République”, Gallimard, Paris 1984-1986, p. XXI; alla monumentale opera di Nora (3 volumi: I “La République”; II “La Nation”; III “Les France”) si deve l’introduzione del termine “luogo di memoria” nel dibattito storiografico (ma già dieci anni prima il filosofo Jacques Derrida aveva formulato la nozione di monumémoire, intesa come spazio mentale cui vengono involontariamente preservati i ricordi di un evento, cfr. J. Derrida, Glas, Bompiani, Milano 2006, ed. or. 1974); lo storico francese delinea un repertorio di luoghi reali o simbolici, monumentali o paesaggistici, profondamente legati al passato ed all’identità della nazione. Per l’Italia qualcosa di analogo è stato tentato con il lavoro a cura di Mario Isnenghi, I luoghi della memoria, Laterza, Roma-Bari 1996-1997.

[2] Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003 (ed. or. 2000), pp. 578-579.

[3] Definendo il concetto di “luogo di memoria” Nora insiste sul nesso tra il luogo, il suo valore simbolico e la comunità per la quale esso assume significato.

[4] Ho mutuato l’immagine metaforica di “spazio mentale” dall’opera dello psichiatra e psicanalista Salomon Resnik, il quale definisce l’avventura psicanalitica come «un viaggio il cui fine è quello di trovare un luogo, di immaginare uno spazio che possa prestare il corpo o essere il corpo che permette a pensieri smarriti di ritrovarsi, di raggrupparsi» (Salomon Resnik, Spazio mentale. Sette lezioni alla Sorbona, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 105-106).

[5] Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1990 (1^ ed. 1972), p. 9.

[6] Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. 1947), pp. 7-8.

[7] James Hillman, Le storie che curano. Freud, Jung, Adler, Raffaello Cortina Editore, Milano 1984 (ed. or. 1983), p. VI.

[8] Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski, postfazione di Luisa Passerini, Edizioni Unicopli, Milano 1987 (ed. or. 1968); per Halbwachs la memoria di ciascun individuo è agevolata, sollecitata, sorretta costantemente dalle relazioni che lo legano a tutti gli altri membri del suo stesso ambiente sociale e la memoria collettiva costituisce l’insieme dei quadri che rendono possibile mantenere, sviluppare e comunicare i contenuti della memoria da parte dei singoli: «non c’è memoria possibile al di fuori dei quadri di cui si servono gli uomini che vivono in società per fissare e ritrovare i propri ricordi» (M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, Mouton, Paris 1975, p. 82; ed. or. 1925; ed. it. I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli-Los Angeles 1997).

[9] Le testimonianze a cui si fa riferimento sono, oltre al racconto di Josef Indig (Anni in fuga. I ragazzi di Villa Emma a Nonantola, a cura di Klaus Voigt, Giunti, Firenze-Milano 2004), quelle raccolte per il film-documentario di Aldo Zappalà I ragazzi di Villa Emma: giovani ebrei in fuga (Raieducational/La storia siamo noi, Doc&Village, Fondazione Villa Emma, 2008).

[10] La frase viene pronunciata da Gerda Tuchner (nel 1942 aveva tredici anni e proveniva da Berlino) nel film I ragazzi di Villa Emma.

[11] Cfr. Prefazione di Klaus Voigt in J. Indig, Anni in fuga, cit., p. 15.

[12] M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., pp. 45-47.

[13] I testimoni intervistati sono Geppe Bertoni (8.7.2009, 1.7.2010), don Giovanni Gilli (1.7.2010), Isora Garuti (29.5.2010), Giambattista Moreali (29.5.2010, 23.4.2011), Disma Piccinini (8.7.2009), Emilio Pollastri (13.11.2009, 16.04.2010), Dino Sighinolfi (21.12.2009), Adele Tosatti (13.11.2009, 16.04.2010); le registrazioni audiovisive delle interviste sono conservate nell’Archivio della Fondazione Villa Emma.

[14] Per una sintetica cronologia degli avvenimenti nel periodo 1943-1945 a Nonantola si veda Maria Laura Marescalchi e Anna Maria Ori (a cura di), Nonantola e i salvati di Villa Emma: luglio 1942 – ottobre 1945, Fondazione Villa Emma, Nonantola 2007, pp. 72-75.

[15] Intervista a Disma Piccinini, cit.

[16] Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Garzanti, Milano 2004 (ed. or. 2000), p. 160.

[17] Cfr. Pier Paolo Pasolini, Il vuoto del potere in Italia, «Corriere della sera», 1 febbraio 1975, ripubblicato con il titolo L’articolo delle lucciole in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1977, pp. 156-164.

[18] Paolo Jedlowski, nell’introduzione alla prima edizione italiana de La memoria collettiva, non manca di sottolineare come su questo aspetto si possa cogliere una correlazione tra il pensiero di Walter Benjamin (in particolare fra le sue Tesi della filosofia della storia, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962) e quello di Halbwachs (cfr. M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 28 e n.48).

[19] llva Vaccari, Villa Emma: un episodio agli albori della Resistenza modenese nel quadro delle persecuzioni razziali, Quaderni dell’Istituto Storico della Resistenza in Modena e Provincia, Mucchi, Modena 1960.

[20] Il concetto di “resistenza civile” sarà introdotto per la prima volta nel lessico storiografico alla fine degli anni Ottanta dal politologo e storico francese Jacques Sémelin che nel suo saggio Senz’armi di fronte ad Hitler. La Resistenza civile in Europa 1939-1945 (Edizioni Sonda, Casale Monferrato 1993; ed. or. 1989) definisce questo fenomeno come «un processo spontaneo di lotta della società civile con mezzi non armati, sia attraverso la mobilitazione delle sue principali istituzioni, sia attraverso la mobilitazione delle sue popolazioni, oppure grazie all’azione di entrambi gli elementi».

[21] Klaus Voigt, Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga. 1940-1945, La Nuova Italia, Firenze 2002.

[22] Georges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare?, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. 1988), p. 50 e n.25; in nota l’autore segnala che: “In Italia non c’è stato un antisemitismo a livello popolare; inoltre, l’esercito italiano ha tentato, dove ha potuto farlo nell’Europa occupata (cfr. Grecia, Francia), di proteggere gli ebrei perseguitati”.

[23] L’espressione è di Tzvetan Todorov, che dedica a questo tema pagine illuminanti nel suo Memoria del male…, cit.

[24] Cfr. Emmanuel Lévinas, Entre nous, Grasset, Paris 1991, p. 119 (tr. it., Tra noi, Jaca Book, Milano 1998).

[25] Citazione in G. Bensoussan, L’eredità…, cit., p. 107.

[26] Ivi, p. 51.

[27] Cfr. Maurizio Bettini e Mario Lentano, Il mito di Enea, Einaudi, Torino 2013.